
Ma che succede se, in caso di inadempimento del debitore, il prenditore – in questo caso, cioè, il creditore – trattiene gli assegni o, peggio, li porta all’incasso per cercare di “recuperare il recuperabile”? Si può configurare il reato di “appropriazione indebita” [1]?
A dare una risposta a questo interrogativo è stata la Cassazione con una recente sentenza [2].
La Corte parte da un presupposto fondamentale. Il titolo di credito può essere utilizzato anche con funzione di garanzia, oltre a quella ordinaria come strumento di pagamento. Pertanto, ciò posto, la ritenzione dello stesso, da parte del creditore, nel caso in cui il debitore sia stato inadempiente, non fa scattare alcun reato. In pratica, se il creditore trattiene gli assegni, a titolo di garanzia, in attesa che la controparte gli dia la prestazione, non compie alcun illecito.
Il reato invece scatta se il creditore, in assenza di un apposito patto siglato in anticipo col debitore, porta all’incasso gli assegni con lo scopo (cosciente e volontario) di appropriarsi del denaro altrui, sapendo di agire senza averne diritto, ed al fine di trarre una qualsiasi illegittima utilità [3]. In tale caso scatta il reato di appropriazione indebita.
Infine – sottolinea la Corte – nessun reato si può configurare se, invece, il creditore usa i titoli quale prova scritta del proprio credito ed agisce in tribunale per richiedere un decreto ingiuntivo nei confronti del debitore. Il fatto di non aver restituito gli assegni, per procurarsi la prova del proprio credito, non costituisce alcun illecito, né di carattere penale, né di carattere civile.
[1] Art. 646 cod. pen.
[2] Cass. sent. n. 5643/14 del 5.02.2014.
[3] Cass. sent. n. 27023/2012.
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